La fotografia è un incantesimo che cattura istanti fugaci e visioni personali, li congela nel tempo e li rende eterni. È la magia della luce che, catturata dallo strumento ottico, si trasforma in immagini che parlano al cuore e all’anima.
Ma è nella stampa che la fotografia trova la sua piena espressione. Il passaggio dal digitale al tangibile, dal file al foglio, è un rituale alchemico (e lo è ancora di più nel procedimento analogico). La stampa trasforma un’immagine virtuale in un oggetto reale, un’opera che può essere toccata, ammirata sotto diverse luci, condivisa, che trova una sua collocazione materiale e duratura nel nostro quotidiano. Può diventare un oggetto d’affezione.
C’è una profonda soddisfazione nel vedere un’immagine prendere forma su carta, nei colori o nelle sfumature di grigi che avevamo immaginato. È un’emozione unica, un legame intimo che si crea tra l’autore e la sua opera. Tecnicamente parlando una stampa offre una qualità visiva superiore rispetto allo schermo, con colori più vividi e dettagli più definiti. Se parliamo poi di fine art, ogni stampa è un pezzo unico, un’opera d’arte originale.
Per questi motivi la stampa fotografica non può essere considerata semplicemente un processo tecnico, ma è soprattutto un’arte. Molteplici variabili quali la scelta del supporto, della carta, della finitura, sono tutte decisioni creative che caratterizzano l’aspetto finale dell’immagine. Così come la sensibilità e l’esperienza dello stampatore, sono aspetti determinanti nella genesi di una stampa fine art.
In conclusione, la fotografia e la stampa fotografica sono un binomio indissolubile. La stampa dà vita all’immagine, la rende tangibile e la trasforma in un’opera preziosa.

Roberto Caielli è un fotografo, scrittore e stampatore fine art, con sede a Daverio (VA, Italia) e Grimentz (Anniviers, Svizzera).
Nato ad Angera (VA) nel 1973, è laureato in Lettere ed è autore di diversi testi letterari (Lais, 2003, Aldous, 2006, Sluagh Ghairm, 2009, Private Haiku, 2022, Orografie, 2023). Roberto vive la fotografia come una continuazione ideale della scrittura. Le sue immagini nascono da una premessa filosofica sulla rappresentazione della realtà, di cui la fotografia è specchio e ombra.
Tra i suoi lavori fotografici, Skyhole, un’installazione permanente all’interno di una diga alpina svizzera, Autoritratto di lago, Il tempo a casa Colombo, Film Landscape. Collabora ed espone presso importanti gallerie d’arte in Italia e all’estero. È docente di tecnica fotografica e storia della fotografia in varie istituzioni formative. È stato Canon Ambassador LFP per l’Italia dal 2014.
Qual è la tua personale storia della fotografia?
Una stampa in particolare racconta la mia personale storia della fotografia. E’ la foto semplice di una pigna, stampata quasi venti anni fa in bianco e nero su una carta cotone opaca e lucidata a mano con una vernice acrilica trasparente, a spruzzo. E’ stata la prima stampa artistica di cui sono stato soddisfatto e orgoglioso, lì ho deciso che avrei chiuso un capitolo della vita, dedicato alla letteratura e al teatro, per aprirne un altro. Da ragazzo scattavo foto con una Petri nella metropolitana di Parigi e sulla tomba di Jim Morrison al Père-Lachaise, ma le ho perdute tutte. Poi mi sono laureato in storia del teatro medievale e la fotografia non era nei miei orizzonti professionali. Ci sono stati alcuni incontri che hanno contribuito a cambiare questa storia. Maurizio Buscarino, che incontravo al Crt di Milano ed è per me uno dei più straordinari fotografi italiani, mi parlò per primo delle potenzialità della stampa artistica. Antonio Manta, che ha insegnato a tutti a stampare fotografie. Giorgio Lotti mi ha spiegato che c’è una etica e un senso della misura in ogni scatto.

Nella tua biografia si legge che hai trovato nella fotografia l’ideale prosecuzione della poesia. Come dialogano tra di loro queste due discipline nella tua produzione artistica?
La poesia è un amore, e se pur con corrispondenze alterne, è la radice che sostiene ogni camminare. Sono dentro questa conflittualità da sempre, scrivo di ombra, mi piace pensare che, come il mio primo laboratorio, la mia sia una poesia carbonara, con la stessa irruenza e segretezza di un moto di liberazione. Se le due cose convivono, convivono in questo senso, pur in un dialogo difficile con il mondo che le circonda. Un intero universo di visioni morali sulla vita e sull’arte lega, per dire, I sotterranei di Kerouac a Charlie Parker e a Robert Frank. o a un Arcano di Jack Hirschman. E’ un legame che trovo abbastanza irripetibile, oggi. Ma, per la potenza dei loro linguaggi, mi piace immaginare Ungaretti o Campana come grandi fotografi della notte, del peregrinare e del dolore, o Diane Arbus una grande poetessa del limite e della soglia. Stampare, per me stesso e soprattutto per gli altri, è un modo per far convivere molte presenze interiori. Amo l’intuizione complessa che nasce dallo studio meticoloso, dall’erudizione, ma anche dalle scintille che dimorano in profondità, e non sopporto l’arroganza e la superficialità, che in genere s’accompagnano e si specchiano, nell’arte come nella vita.

La tua fotografia ha un forte legame con il territorio e i luoghi che ti stanno a cuore, soprattutto la montagna ed i fiumi. Che relazione hai con questi elementi e cosa cerchi di rappresentarne tramite la fotografia?
Il fiume e la pesca con la mosca sono qualcosa, per dirla con Norman Maclean, di religioso per me, una sorta di preghiera che mi lega al fluire del mondo. Fotografare questi luoghi documenta a volte questi passaggi e li mette semplicemente nella scatola dei ricordi, se mai a qualcuno possano servire. La bellezza è una forma di ricordo, o meglio di rimembranza per usare un concetto leopardiano, che non si allontana dalla verità. La fotografia fa da ponte tra la rimembranza e gli altri, le persone del presente e quelle del futuro. Non si possono fotografare gli angeli, ma si possono pescare le trote. risalendo un torrente di montagna, con la mosca secca, facendole salire su una imitazione imperfetta della natura, e rilasciarle dopo averle ammirate.

Fra le tue attività c’è anche la docenza di tecnica fotografica e di storia della fotografia. Quale risposta delle nuove generazione hai potuto raccogliere in un momento in cui la fotografia sembra essere penalizzata e non valorizzata?
Gli studenti conoscono, o conosceranno a breve, una immagine realistica del mondo e di se stessi che si genera semplicemente pronunciando una frase o, non manca molto, solo pensandola. E’ difficile insegnare a fotografare come dieci anni fa. Provo quindi sempre di più a spiegare agli studenti l’importanza dello sguardo, del guardare, come gesto che fa prendere coscienza della vita, degli altri, e quindi del proprio stare nel mondo, anche professionale. Fotografare, e farlo bene, è uno dei modi possibili per dare sostanza a questo sguardo.

Nella tua attività di stampatore fine art, a cui hai recentemente integrato una galleria d’arte, quanto è importante il dialogo, il confronto e lo scambio con i propri clienti?
Una buona stampa, si diceva qualche anno fa, nasce dal rapporto tra stampatore e fotografo. Questo è ancora vero solo in parte. Stampare una fotografia significa farla propria, interpretarla, aggiungere o togliere in base alla propria esperienza e, in questo senso, arricchirla. Talvolta questo approccio viene percepito come una invadenza. Ma ancora si può imparare moltissimo l’uno dall’altro. La galleria nel bellissimo “casone” della Bossa di Daverio (Va) ospita, per il momento, i miei lavori personali, ma l’idea è quella di trasformarla in una galleria d’arte vera e propria, magari dedicata agli artisti che pescano con la mosca (ce ne sono tanti), o che si dedicano in particolare a temi come la protezione e la cura dell’ambiente, il cambiamento climatico o il rapporto dell’uomo con la natura.

Nella produzione di stampe fine art fai ricorso all’uso della stampa in bianconero ai pigmenti di carbone. Perché questa scelta e quali caratteristiche la rendono preferibile rispetto ad altre tecniche?
Ho sempre cercato, sul lavoro e non solo, di scoprire e sperimentare la cosa più bella, la soluzione migliore. La fotografia in bianco e nero è l’essenza. La stampa ai pigmenti di carbone è il modo più bello per stampare una fotografia in bianco e nero da file, su carte cotone opache. Ha consistenza, ampiezza, incisione e morbidezza allo stesso tempo, e rispetto al plotter tradizionale, pur ottimo, risolve quella patina di artificiosità di molte fotocamere digitali dando naturalezza al file. Si stampa con inchiostri a 8-10 gradazioni di grigio diverse, a base carbone, prodotti negli Stati Uniti, utilizzando profili dedicati al bianco e nero e mescolando tonalità calde e fredde fino ad ottenere la propria curvatura ideale. Il nero è profondo e compatto e i passaggi decisamente più ricchi. Ho stampato al carbone, sempre con grande soddisfazione, dettagliatissimi file da dorsi medio formato e jpg da telefonini, scansioni di negativi e polaroid, riproduzioni di disegni e litografie.

Sei stato ambasciatore LFP (Large Format Printer) Canon. Quali sfide e quali regali hai ricevuto da questo impegnativo riconoscimento?
Direi la ricchezza umana di molte persone dell’area Large format printing, con cui è stato sempre piacevole e interessante lavorare è stato il regalo più importante. La sfida, forse, la stampa di una bellissima fotografia di Paolo Pellegrin per lo stand Canon a un Mia Fair di qualche anno fa. Le dolorose figure ritratte chiedevano plasticità e rispetto, che spero di aver reso nel miglior modo possibile.
Mirko Bonfanti